CATECHESI DI PAPA GIOVANNI PAOLO II SULL'EUCARISTIA
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 27 settembre 2000
L’Eucaristia suprema celebrazione terrena della “gloria”
1. Secondo gli orientamenti delineati nella Tertio millennio adveniente, quest’anno giubilare, celebrazione solenne dell’Incarnazione, dev’essere un anno “intensamente eucaristico” (TMA 55). Per questo, dopo aver fissato lo sguardo sulla gloria della Trinità che risplende sul cammino dell’uomo, iniziamo una catechesi su quella grande e insieme umile celebrazione della gloria divina che è l’Eucaristia. Grande perché è l’espressione principale della presenza di Cristo in mezzo a noi “tutti i giorni sino alla fine del mondo” (Mt 28,20); umile perché è affidata ai segni semplici e quotidiani del pane e del vino, cibo e bevanda ordinari della terra di Gesù e di molte altre regioni. In questa quotidianità degli alimenti, l’Eucaristia introduce non solo la promessa, ma il ‘pegno’ della gloria futura: “futurae gloriae nobis pignus datur” (San Tommaso d’Aquino, Officium de festo corporis Christi). Per cogliere la grandezza del mistero eucaristico, vogliamo oggi considerare il tema della gloria divina e dell’azione di Dio nel mondo, ora manifestata in grandi eventi di salvezza, ora celata sotto umili segni, che solo l’occhio della fede può percepire.
2. Nell’Antico Testamento col vocabolo ebraico kabôd si indica lo svelarsi della gloria divina e la presenza di Dio nella storia e nel creato. La gloria del Signore rifulge sulla vetta del Sinai, luogo di rivelazione della Parola divina (cfr Es 24,16). È presente sulla tenda santa e nella liturgia del popolo di Dio pellegrino nel deserto (cfr Lv 9,23). Domina nel tempio, la dimora - come dice il Salmista - “dove abita la tua gloria” (Sal 26,8). Avvolge come un manto di luce (cfr Is 60,1) tutto il popolo eletto: lo stesso Paolo è consapevole che “gli Israeliti possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze…” (Rm 9,4).
3. Questa gloria divina che si manifesta in modo speciale a Israele è presente in tutto l’universo, come il profeta Isaia ha sentito proclamare dai serafini al momento della sua vocazione: “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria” (Is 6,3). Anzi, a tutti i popoli il Signore rivela la sua gloria, come si legge nel Salterio: “Tutti i popoli contemplano la sua gloria” (Sal 97,6). L’accendersi della luce della gloria è, quindi, universale, per cui tutta l’umanità può scoprire la presenza divina nel cosmo.
Soprattutto in Cristo si compie questo svelamento perché egli è “irradiazione della gloria” divina (Eb 1,3). Lo è anche attraverso le sue opere, come testimonia l’evangelista Giovanni di fronte al segno di Cana: Cristo “manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11). Egli irradia la gloria divina anche attraverso la sua parola che è parola divina: “Io ho dato loro la tua parola”, dice Gesù al Padre; “la gloria che tu hai dato a me,io l’ho data a loro” (Gv 17,14.22). Più radicalmente Cristo manifesta la gloria divina attraverso la sua umanità, assunta nell’incarnazione: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
4. La rivelazione terrena della gloria divina raggiunge il suo apice nella Pasqua che, soprattutto negli scritti giovannei e paolini, è tratteggiata come una glorificazione di Cristo alla destra del Padre (cfr Gv 12,23; 13,31; 17,1; Fil 2,6-11; Col 3,1; 1 Tim 3,16). Ora, il mistero pasquale, espressione della “perfetta glorificazione di Dio” (SC 7), si perpetua nel sacrificio eucaristico, memoriale della morte e risurrezione affidato da Cristo alla Chiesa sua amata sposa (cfr SC 47). Col comando “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19) Gesù assicura la presenza della gloria pasquale attraverso tutte le celebrazioni eucaristiche che scandiranno il fluire della storia umana. “Attraverso la santa Eucaristia l’evento della Pasqua di Cristo si espande in tutta la Chiesa (…). Con la comunione al corpo e al sangue di Cristo, i fedeli crescono nella misteriosa divinizzazione che, grazie allo Spirito Santo, li fa abitare nel Figlio come figli del Padre” (Giovanni Paolo II e Moran Mar Ignatius Zakka I Iwas, Dichiarazione Comune 23.6.1984, n. 6: EV 9,842).
5. È indubbio che la celebrazione più alta della gloria divina si ha oggi nella liturgia. “Poiché la morte di Cristo in croce e la sua risurrezione costituiscono il contenuto della vita quotidiana della Chiesa e il pegno della sua Pasqua eterna, la liturgia ha come primo compito quello di ricondurci instancabilmente sul cammino pasquale aperto da Cristo, in cui si accetta di morire per entrare nella vita” (Lettera Apostolica Vicesimus quintus annus, 6). Ora, questo compito si esercita anzitutto per mezzo della celebrazione eucaristica, la quale rende presente la Pasqua di Cristo e ne comunica il dinamismo ai fedeli. Così il culto cristiano è l’espressione più viva dell’incontro tra la gloria divina e la glorificazione che sale dalle labbra e dal cuore dell’uomo. Alla “gloria del Signore che riempie la dimora” del tempio con la sua presenza luminosa (cfr Es 40,34) deve corrispondere il nostro “glorificare il Signore con animo generoso” (Sir 35,7).
6. Come ci ricorda san Paolo, dobbiamo anche glorificare Dio nel nostro corpo, cioè nell’intera esistenza, perché il nostro corpo è tempio dello Spirito che è in noi (cfr 1 Cor 6,19.20). In questa luce si può anche parlare di una celebrazione cosmica della gloria divina. Il mondo creato, “spesso ancora sfigurato dall’egoismo e dall’ingordigia”, ha in sé “una potenzialità eucaristica”: “esso è destinato ad essere assunto nell’eucaristia del Signore, nella sua Pasqua presente nel sacrificio dell’altare” (Orientale Lumen 11). All’aleggiare della gloria del Signore che è “più alta dei cieli” (Sal 113,4) e si irradia sull’universo risponderà allora, in contrappunto di armonia, la lode corale del creato così che “in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!” (1 Pt 4,11).
Mercoledì, 4 ottobre 2000
L’Eucaristia, memoriale dei “mirabilia Dei”
1. Tra i molteplici aspetti dell’Eucaristia spicca quello di “memoriale”, che sta in rapporto con un tema biblico di primaria importanza. Leggiamo, ad esempio, nel libro dell’Esodo: “Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe” (Es 2,24). Nel Deuteronomio invece è detto: “Ricordati del Signore tuo Dio” (8,18). “Ricordati di quello che il Signore tuo Dio fece…” (7,18). Nella Bibbia il ricordo di Dio e il ricordo dell’uomo s’intrecciano e costituiscono una componente fondamentale della vita del popolo di Dio. Non si tratta, però, della pura commemorazione di un passato ormai estinto, bensì di uno zikkarôn, cioè un “memoriale”. Questo “non è soltanto il ricordo degli avvenimenti del passato, ma la proclamazione delle meraviglie che Dio ha compiuto per gli uomini. La celebrazione liturgica di questi eventi, li rende in certo modo presenti e attuali” (CCC 1363). Il memoriale richiama un legame di alleanza che non viene mai meno: “Il Signore si ricorda di noi e ci benedice” (Sal 115,12).
La fede biblica implica quindi il ricordo efficace delle opere meravigliose di salvezza. Esse sono professate nel “Grande Hallel”, il Salmo 136, che - dopo aver proclamato la creazione e la salvezza offerta a Israele nell’Esodo - conclude: «Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi perché eterno è il suo amore (…). Ci ha liberati (…), ha dato il cibo a ogni vivente, perché eterno è il suo amore» (Sal 136,23-25). Simili parole troveremo nel Vangelo sulle labbra di Maria e Zaccaria: “Egli ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia (…). Egli si è ricordato della sua santa alleanza” (Lc 1,54.72).
2. Nell’Antico Testamento il “memoriale” per eccellenza delle opere di Dio nella storia era la liturgia pasquale dell’Esodo: ogni volta che il popolo di Israele celebrava la Pasqua, Dio gli offriva in modo efficace il dono della libertà e della salvezza. Nel rito pasquale, si incrociavano pertanto i due ricordi, quello divino e quello umano, cioè la grazia salvifica e la fede riconoscente: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore (…). Sarà per te segno sulla tua mano e ricordo fra i tuoi occhi, perché la legge del Signore sia sulla tua bocca. Con mano potente infatti il Signore ti ha fatto uscire dall’Egitto» (Es 12,14; 13,9). In forza di questo evento, come affermava un filosofo ebreo, Israele sarà sempre «una comunità basata sul ricordo» (M. Buber).
3. L’intreccio tra il ricordo di Dio e quello dell’uomo è al centro anche dell’Eucaristia che è il “memoriale” per eccellenza della Pasqua cristiana. L’“anamnesi”, cioè l’atto di ricordare, è infatti il cuore della celebrazione: il sacrificio di Cristo, evento unico, compiuto ef’hapax, cioè “una volta per tutte” (Eb 7,27; 9,12.26; 10,12), diffonde la sua presenza salvifica nel tempo e nello spazio della storia umana. Ciò è espresso nell’imperativo finale che Luca e Paolo riportano nella narrazione dell’Ultima Cena: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me… Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me” (1Cor 11,24-25; cfr Lc 22,19). Il passato del “corpo dato per noi” sulla croce si presenta vivo nell’oggi e, come dichiara Paolo, si apre al futuro della redenzione finale: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1 Cor 11,26). L’Eucaristia è, dunque, memoriale della morte di Cristo, ma è anche presenza del suo sacrificio e anticipazione della sua venuta gloriosa. È il sacramento della continua vicinanza salvatrice del Signore risorto nella storia. Si comprende pertanto l’esortazione di Paolo a Timoteo: “Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti” (2 Tm 2,8). Questo ricordo vive e opera in modo speciale nell’Eucaristia.
4. L’evangelista Giovanni ci spiega il senso profondo del “ricordo” delle parole e degli eventi di Cristo. Di fronte al gesto di Gesù che purifica il tempio dai mercanti e annunzia che esso sarà distrutto e fatto risorgere in tre giorni, egli annota: “Quando fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù” (Gv 2,22). Questa memoria che genera e alimenta la fede è opera dello Spirito Santo “che il Padre manderà nel nome” di Cristo: “Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26). C’è, quindi, un ricordo efficace: quello interiore che conduce alla comprensione della Parola di Dio e quello sacramentale che si realizza nell’Eucaristia. Sono le due realtà di salvezza che Luca ha unito nello splendido racconto dei discepoli di Emmaus, scandito dalla spiegazione delle Scritture e dallo “spezzare il pane” (cfr Lc 24,13-35).
5. “Ricordare” è pertanto “riportare al cuore” nella memoria e nell’affetto, ma è anche celebrare una presenza. “L’Eucaristia, vero memoriale del mistero pasquale di Cristo, è capace di tenere desta in noi la memoria del suo amore. Essa è, perciò, il segreto della vigilanza della Chiesa: le sarebbe troppo facile, altrimenti, senza la divina efficacia di questo richiamo continuo e dolcissimo, senza la forza penetrante di questo sguardo del suo Sposo fissato su di lei, cadere nell’oblio, nell’insensibilità, nell’infedeltà” (Lettera Apostolica Patres Ecclesiae, III: Ench. Vat., 7, 33). Questo richiamo alla vigilanza rende le nostre liturgie eucaristiche aperte alla venuta piena del Signore, all’apparire della Gerusalemme celeste. Nell’Eucaristia il cristiano alimenta la speranza dell’incontro definitivo con il suo Signore.
Mercoledì, 11 ottobre 2000
L’Eucaristia “sacrificium laudis”
1. “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria”. Questa proclamazione di lode trinitaria suggella in ogni celebrazione eucaristica la preghiera del Canone. L’Eucaristia, infatti, è il perfetto “sacrificio di lode”, la glorificazione più alta che dalla terra sale al cielo, “la fonte e l’apice di tutta la vita cristiana in cui (i figli di Dio) offrono (al Padre) la vittima divina e se stessi con essa” (LG n.11). Nel Nuovo Testamento la Lettera agli Ebrei ci insegna che la liturgia cristiana è offerta da un “sommo sacerdote santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli”, che ha compiuto una volta per sempre un unico sacrificio “offrendo se stesso” (cfr Eb 7,26-27). “Per mezzo di Lui, dice la Lettera, offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode” (Eb 13,15). Vogliamo oggi evocare brevemente i due temi del sacrificio e della lode che si incontrano nell’Eucaristia, sacrificium laudis.
2. Nell’Eucaristia si attualizza innanzitutto il sacrificio di Cristo. Gesù è realmente presente sotto le specie del pane e del vino, come egli stesso ci assicura: “Questo è il mio corpo… Questo è il mio sangue” (Mt 26,27-28). Ma il Cristo presente nell’Eucaristia è il Cristo ormai glorificato, che nel Venerdì Santo offrì se stesso sulla croce. È ciò che sottolineano le parole da lui pronunziate sul calice del vino: “Questo è il mio sangue dell’alleanza versato per molti” (Mt 26,28; cfr Mc 14,24; Lc 22,20). Se si esaminano queste parole alla luce della loro filigrana biblica, affiorano due rimandi significativi. Il primo è costituito dalla locuzione “sangue versato” che, come attesta il linguaggio biblico (cfr Gen 9,6), è sinonimo di morte violenta. Il secondo consiste nella precisazione “per molti” riguardante i destinatari di questo sangue versato. L’allusione qui ci riporta a un testo fondamentale per la rilettura cristiana delle Scritture, il quarto canto di Isaia: col suo sacrificio, “consegnando se stesso alla morte”, il Servo del Signore “portava il peccato di molti” (Is 53,12; Eb 9,28; 1Pt 2,24).
3. La stessa dimensione sacrificale e redentrice dell’Eucaristia è espressa dalle parole di Gesù sul pane nell’Ultima Cena, così come sono riferite dalla tradizione di Luca e di Paolo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi” (Lc 22,19; cfr 1 Cor 11,24). Anche in questo caso si ha un rimando alla donazione sacrificale del Servo del Signore secondo il passo già evocato di Isaia (53,12): “Egli ha consegnato se stesso alla morte…; egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. “L’Eucaristia è, dunque, un sacrificio: sacrificio della redenzione e, al tempo stesso, della nuova alleanza, come crediamo e come chiaramente professano anche le Chiese d’Oriente. Il sacrificio odierno - ha affermato, secoli fa, la Chiesa greca (nel Sinodo Costantinopolitano contro Soterico del 1156-57) - è come quello che un giorno offrì l’unigenito incarnato Verbo di Dio, viene da lui offerto oggi come allora, essendo l’identico e unico sacrificio” (Lettera Apostolica Dominicae Cenae n. 9).
4. L’Eucaristia, come sacrificio della nuova alleanza, si pone quale sviluppo e compimento dell’alleanza celebrata sul Sinai quando Mosè ha versato metà del sangue delle vittime sacrificali sull’altare, simbolo di Dio, e metà sull’assemblea dei figli di Israele (cfr Es 24,5-8). Questo “sangue dell’alleanza” univa intimamente Dio e uomo in un legame di solidarietà. Con l’Eucaristia l’intimità diviene totale, l’abbraccio tra Dio e l’uomo raggiunge il suo apice. È il compiersi di quella “nuova alleanza” che aveva predetto Geremia (31,31-34): un patto nello spirito e nel cuore che la Lettera agli Ebrei esalta proprio partendo dall’oracolo del profeta, raccordandolo al sacrificio unico e definitivo di Cristo (cfr Eb 10,14-17).
5. A questo punto possiamo illustrare l’altra affermazione: l’Eucaristia è un sacrificio di lode. Essenzialmente orientato alla comunione piena tra Dio e l’uomo, “il sacrificio eucaristico è la fonte e il culmine di tutto il culto della Chiesa e di tutta la vita cristiana. A questo sacrificio di rendimento di grazie, di propiziazione, di impetrazione e di lode i fedeli partecipano con maggiore pienezza, quando non solo offrono al Padre con tutto il cuore, in unione con il sacerdote, la sacra vittima e, in essa, loro stessi, ma ricevono pure la stessa vittima nel sacramento” (Sacra Congregazione dei Riti, Eucharisticum Mysterium, n. 3 e).
Come dice il termine stesso nella sua genesi greca, l’Eucaristia è “ringraziamento”; in essa il Figlio di Dio unisce a sé l’umanità redenta in un canto di azione di grazie e di lode. Ricordiamo che la parola ebraica todah, tradotta “lode”, significa anche “ringraziamento”. Il sacrificio di lode era un sacrificio di rendimento di grazie (crf Sal 50[49], 14.23). Nell’Ultima Cena, per istituire l’Eucaristia, Gesù ha reso grazie a suo Padre (cfr Mt 26,26-27 e paralleli); è questa l’origine del nome di questo sacramento.
6. “Nel Sacrificio eucaristico, tutta la creazione amata da Dio è presentata al Padre attraverso la morte e la risurrezione di Cristo” (CCC 1359). Unendosi al sacrificio di Cristo, la Chiesa nell’Eucaristia dà voce alla lode dell’intera creazione. A ciò deve corrispondere l’impegno di ciascun fedele a offrire la sua esistenza, il suo “corpo” - come dice Paolo - in “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1), in una comunione piena con Cristo. In questo modo un’unica vita unisce Dio e l’uomo, il Cristo crocifisso e risorto per tutti e il discepolo chiamato a donarsi interamente a Lui.
Questa intima comunione d’amore è cantata dal poeta francese Paul Claudel che pone in bocca a Cristo queste parole: “Vieni con me, dove Io Sono, in te stesso, / e io ti darò la chiave dell’esistenza. / Là dove Io Sono, là eternamente / è il segreto della tua origine… / (…). Dove sono le tue mani che non siano le mie? / E i tuoi piedi che non siano confitti alla stessa croce? / Io sono morto e sono risorto una volta per tutte! Noi siamo vicinissimi l’uno all’altro / (…). Come fare per separarti da me / senza che tu mi strappi il cuore?” (La Messe là-bas).
Mercoledì, 18 ottobre 2000
L’Eucaristia, banchetto di comunione con Dio
1. “Siamo diventati Cristo. Infatti se egli è il capo e noi le sue membra, l’uomo totale è lui e noi” (Agostino, Tractatus in Jo. 21,8). Queste parole ardite di sant’Agostino esaltano la comunione intima che nel mistero della Chiesa si crea tra Dio e l’uomo, una comunione che, nel nostro cammino storico, trova il suo segno più alto nell’Eucaristia. Gli imperativi: “Prendete e mangiate… Bevetene…” (Mt 26,26-27) che Gesù rivolge ai suoi discepoli in quella sala al piano superiore di una casa di Gerusalemme, l’ultima sera della sua vita terrena (cfr Mc 14,15), sono densi di significato. Già il valore simbolico universale del banchetto offerto nel pane e nel vino (cfr Is 25,6), rimanda alla comunione e all’intimità. Elementi ulteriori più espliciti esaltano l’Eucaristia come convito di amicizia e di alleanza con Dio. Essa infatti - come il Catechismo della Chiesa cattolica ricorda - è “al tempo stesso e inseparabilmente il memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce e il sacro banchetto della Comunione al Corpo e al Sangue del Signore” (CCC 1382).
2. Come nell’Antico Testamento il santuario mobile del deserto era chiamato “tenda del convegno”, cioè dell’incontro tra Dio e il suo popolo e dei fratelli di fede tra loro, l’antica tradizione cristiana ha chiamato “sinassi”, cioè “riunione”, la celebrazione eucaristica. In essa “si svela la natura profonda della Chiesa, comunità dei convocati alla sinassi per celebrare il dono di colui che è offerente e offerta: essi, partecipando ai santi misteri, divengono ‘consanguinei’ di Cristo, anticipando l’esperienza della divinizzazione nell’ormai inseparabile vincolo che lega in Cristo divinità e umanità” (Orientale Lumen n. 10).
Se vogliamo approfondire il senso genuino di questo mistero di comunione tra Dio e i fedeli, dobbiamo ritornare alle parole di Gesù nell’ultima Cena. Esse rimandano alla categoria biblica dell’“alleanza”, evocata proprio attraverso la connessione del sangue di Cristo con quello sacrificale versato al Sinai: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza” (Mc 14,24). Mosè aveva dichiarato: “Ecco il sangue dell’alleanza” (Es 24,8). L’alleanza che al Sinai univa Israele al Signore con un vincolo di sangue, preannunciava la nuova alleanza, da cui deriva - per usare un’espressione dei Padri greci – come una consanguineità tra Cristo e il fedele (cf Cirillo Alessandrino, In Johannis Evangelium XI; Giovanni Crisostomo, In Matthaeum hom. LXXXII, 5).
3. Sono soprattutto le teologie giovannea e paolina ad esaltare la comunione del credente con Cristo nell’Eucaristia Nel discorso nella sinagoga di Cafarnao Gesù dice esplicitamente: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51). L’intero testo di quel discorso è proteso a sottolineare la comunione vitale che si stabilisce, nella fede, tra Cristo pane di vita e colui che ne mangia. In particolare appare il verbo greco tipico del quarto vangelo per indicare l’intimità mistica tra Cristo e il discepolo, ménein, “rimanere, dimorare”: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6,56; cf. 15,4-9).
4. Il vocabolo greco della “comunione”, koinonìa, emerge poi nella riflessione della Prima Lettera ai Corinzi, dove Paolo parla dei banchetti sacrificali dell’idolatria qualificandoli come “mensa dei demoni” (10,21), ed esprime un principio valido per tutti i sacrifici: “Quelli che mangiano le vittime sacrificali sono in comunione con l’altare” (10,18). Di questo principio l’Apostolo fa un’applicazione positiva e luminosa in rapporto all’Eucaristia: “Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione (koinonía) con il Sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione (koinonía) con il corpo di Cristo? (…). Tutti partecipiamo dell’unico pane” (10,16-17). “La partecipazione all’Eucaristia, sacramento della nuova alleanza, è quindi il vertice dell’assimilazione a Cristo, fonte di vita eterna, principio e forza del dono totale di sé” (Veritatis splendor n. 21).
5. Questa comunione con Cristo genera, pertanto, un’intima trasformazione del fedele. San Cirillo Alessandrino delinea in modo efficace questo evento mostrandone la risonanza nell’esistenza e nella storia: “Cristo ci forma secondo la sua immagine in modo che i lineamenti della sua divina natura risplendano in noi attraverso la santificazione, la giustizia e la vita buona e conforme a virtù. La bellezza di questa immagine risplende in noi che siamo in Cristo, quando ci mostriamo uomini buoni nelle opere” (Tractatus ad Tiberium Diaconum sociosque, II, Responsiones ad Tiberium Diaconum sociosque, in In divi Johannis Evangelium, vol. III, Bruxelles 1965, p. 590). “Partecipando al sacrificio della croce, il cristiano comunica con l’amore di donazione di Cristo ed è abilitato e impegnato a vivere questa stessa carità in tutti i suoi atteggiamenti e comportamenti di vita. Nell’esistenza morale si rivela e si attua il servizio regale cristiano” (Veritatis splendor n. 107). Tale servizio regale ha la sua radice nel battesimo e la sua fioritura nella comunione eucaristica. La via della santità, dell’amore, della verità è, dunque, la rivelazione al mondo della nostra intimità divina, attuata nel banchetto dell’Eucaristia.
Lasciamo che il nostro desiderio della vita divina offerta in Cristo si esprima con i caldi accenti di un grande teologo della Chiesa armena, Gregorio di Narek (X sec.): “Non è dei suoi doni, ma del Donatore che ho sempre la nostalgia. Non è la gloria a cui aspiro, ma è il Glorificato che voglio abbracciare… Non è il riposo ciò che cerco, ma è il volto di Colui che dona riposo che io domando supplicando. Non è per il banchetto nuziale, ma per il desiderio dello Sposo che io languisco” (XII Preghiera).
Mercoledì, 25 ottobre 2000
L’Eucaristia apre al futuro di Dio
1. “Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste” (SC n.8; cfr GS n. 38). Queste parole così limpide ed essenziali del Concilio Vaticano II ci presentano una dimensione fondamentale dell’Eucaristia: il suo essere “futurae gloriae pignus”, pegno della gloria futura, secondo una bella espressione della tradizione cristiana (cfr SC n. 47). “Questo sacramento - osserva san Tommaso d’Aquino - non ci introduce subito nella gloria ma ci dà la forza di giungere alla gloria ed è per questo che è detto «viatico»” (Summa Th. III, 79, 2, ad I). La comunione con Cristo che ora viviamo mentre siamo pellegrini e viandanti nelle strade della storia anticipa l’incontro supremo del giorno in cui “noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). Elia, che in cammino nel deserto si accascia privo di forze sotto un ginepro e viene rinvigorito da un pane misterioso fino a raggiungere la vetta dell’incontro con Dio (cfr 1Re 19,1-8), è un tradizionale simbolo dell’itinerario dei fedeli, che nel pane eucaristico trovano la forza per camminare verso la meta luminosa della città santa.
2. È questo anche il senso profondo della manna imbandita da Dio nelle steppe del Sinai, “cibo degli angeli” capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto, manifestazione della dolcezza (di Dio) verso i suoi figli (cfr Sap 16,20-21). Sarà Cristo stesso a far balenare questo significato spirituale della vicenda dell’Esodo. È lui a farci gustare nell’Eucaristia il duplice sapore di cibo del pellegrino e di cibo della pienezza messianica nell’eternità (cfr Is 25,6). Per mutuare un’espressione dedicata alla liturgia sabbatica ebraica, l’Eucaristia è un “assaggio di eternità nel tempo” (A. J. Heschel). Come Cristo è vissuto nella carne permanendo nella gloria di Figlio di Dio, così l’Eucaristia è presenza divina e trascendente, comunione con l’eterno, segno della “compenetrazione tra città terrena e città celeste” (GS n.40). L’Eucaristia, memoriale della Pasqua di Cristo, è di sua natura apportatrice dell’eterno e dell’infinito nella storia umana.
3. Questo aspetto che apre l’Eucaristia al futuro di Dio, pur lasciandola ancorata alla realtà presente, è illustrato dalle parole che Gesù pronunzia sul calice del vino nell’ultima cena (cfr Lc 22,20; 1Cor 11,25). Marco e Matteo evocano in quelle stesse parole l’alleanza nel sangue dei sacrifici del Sinai (cfr Mc 14,24; Mt 26,28; cfr Es 24,8). Luca e Paolo, invece, rivelano il compimento della “nuova alleanza” annunziata dal profeta Geremia: “Ecco verranno giorni - dice il Signore - nei quali con la casa di Israele e di Giuda io concluderò una nuova alleanza, non come l’alleanza conclusa coi vostri padri” (31,31-32). Gesù, infatti, dichiara: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”. ‘Nuovo’, nel linguaggio biblico, indica di solito progresso, perfezione definitiva.
Sono ancora Luca e Paolo a sottolineare che l’Eucaristia è anticipazione dell’orizzonte di luce gloriosa propria del regno di Dio. Prima dell’Ultima Cena Gesù dichiara: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione; poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio. Preso un calice, rese grazie e disse: Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio” (Lc 22,15-18). Anche Paolo ricorda esplicitamente che la cena eucaristica è protesa verso l’ultima venuta del Signore: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor 11,26).
4. Il quarto evangelista, Giovanni, esalta questa tensione dell’Eucaristia verso la pienezza del regno di Dio all’interno del celebre discorso sul “pane di vita”, che Gesù tiene nella sinagoga di Cafarnao. Il simbolo da lui assunto come punto di riferimento biblico è, come già s’accennava, quello della manna offerta da Dio a Israele pellegrino nel deserto. A proposito dell’Eucaristia Gesù afferma solennemente: “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno (…). Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (…). Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i vostri padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51.54.58). La ‘vita eterna’, nel linguaggio del quarto vangelo, è la stessa vita divina che oltrepassa le frontiere del tempo. L’Eucaristia, essendo comunione con Cristo, è quindi partecipazione alla vita di Dio che è eterna e vince la morte. Per questo Gesù dichiara: “La volontà di colui che mi ha mandato è che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno. Perché questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,39-40).
5. In questa luce - come diceva suggestivamente un teologo russo, Sergej Bulgakov - “la liturgia è il cielo sulla terra”. Per questo nella Lettera Apostolica Dies Domini, riprendendo le parole di Paolo VI, ho esortato i cristiani a non trascurare “questo incontro, questo banchetto che Cristo ci prepara nel suo amore. Che la partecipazione ad esso sia insieme degnissima e gioiosa! È il Cristo, crocifisso e glorificato, che passa in mezzo ai suoi discepoli, per trascinarli insieme nel rinnovamento della sua risurrezione. È il culmine, quaggiù, dell’alleanza d’amore tra Dio e il suo popolo: segno e sorgente di gioia cristiana, tappa per la festa eterna” (Gaudete in Domino, conclusione; Dies Domini 58).
Mercoledì, 8 novembre 2000
L’Eucaristia sacramento di unità
1. “Sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità!”. L’esclamazione di S. Agostino nel suo commento al Vangelo di Giovanni (In Johannis Evangelium 26,13) raccoglie idealmente e sintetizza le parole che Paolo ha rivolto ai Corinzi e che abbiamo appena ascoltato: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti, partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10,17). L’Eucaristia è il sacramento e la sorgente dell’unità ecclesiale. E ciò è stato ribadito fin dalle origini della tradizione cristiana, basandosi proprio sul segno del pane e del vino. Così, nella Didachè, uno scritto composto ai primordi del cristianesimo, si afferma: “Come questo pane spezzato era prima disperso sui monti e, raccolto, è divenuto una sola realtà, così si raccolga la tua Chiesa dai confini della terra nel tuo regno” (9,1).
2. San Cipriano, vescovo di Cartagine, facendo eco nel III secolo a queste parole, afferma: “Gli stessi sacrifici del Signore mettono in luce l’unanimità dei cristiani cementata con solida e indivisibile carità. Poiché quando il Signore chiama suo corpo il pane composto dall’unione di molti granelli, indica il nostro popolo adunato, che egli sostenta; e quando chiama suo sangue il vino spremuto dai molti grappoli e acini e fuso insieme, indica similmente il nostro gregge composto di una moltitudine unita insieme” (Ep. ad Magnum 6). Questo simbolismo eucaristico in rapporto all’unità della Chiesa torna frequentemente nei Padri e nei teologi scolastici. «Il Concilio di Trento ne ha compendiato la dottrina insegnando che il nostro Salvatore ha lasciato l’Eucaristia alla sua Chiesa “come simbolo della sua unità e della carità con la quale egli volle intimamente uniti tra loro tutti i cristiani”; e perciò essa è “simbolo di quell’unico corpo, di cui egli è il capo”» (Paolo VI, Mysterium fidei; cfr Conc.Trid., Decr. de SS. Eucharistia, proemio e c. 2). Il Catechismo della Chiesa Cattolica sintetizza con efficacia: “Coloro che ricevono l’Eucaristia sono uniti più strettamente a Cristo. Per ciò stesso, Cristo li unisce a tutti i fedeli in un solo corpo: la Chiesa” (CCC 1395).
3. Questa dottrina tradizionale è fortemente radicata nella Scrittura. Paolo nel brano già citato della Prima Lettera ai Corinzi la sviluppa partendo da un tema fondamentale, quello della koinonía, cioè della comunione che si instaura tra il fedele e Cristo nell’Eucaristia. “Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione (koinonía) con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione (koinonía) con il corpo di Cristo?” (10,16). Questa comunione è descritta più precisamente nel vangelo di Giovanni come una relazione straordinaria di “interiorità reciproca”: ‘lui in me e io in lui’. Gesù, infatti, dichiara nella sinagoga di Cafarnao: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6,56).
È un tema che sarà sottolineato anche nei discorsi dell’Ultima Cena mediante il simbolo della vite: il tralcio è verdeggiante e fruttifero solo se è innestato nel ceppo della vite da cui riceve linfa e sostegno (Gv 15,1-7). Altrimenti è solo un ramo secco e destinato al fuoco: aut vitis aut ignis, «o la vite o il fuoco», commenta in modo lapidario sant’Agostino (In Johannis - Evangelium 81,3). Si delinea qui un’unità, una comunione, che si attua tra il fedele e Cristo presente nell’Eucaristia, sulla base di quel principio che Paolo formula così: “Quelli che mangiano le vittime sacrificali sono in comunione con l’altare” (1 Cor 10,18).
4. Questa comunione-koinonía di tipo ‘verticale’ perché ci unisce al mistero divino, genera nel contempo una comunione-koinonía che possiamo dire ‘orizzontale’, ossia ecclesiale, fraterna, capace di unire in un legame d’amore tutti i partecipanti alla stessa mensa. “Pur essendo molti, siamo un corpo solo - ci ricorda Paolo -: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,17). Il discorso sull’Eucaristia anticipa la grande riflessione ecclesiale che l’Apostolo svilupperà nel capitolo 12 della stessa Lettera, quando parlerà del corpo di Cristo nella sua unità e molteplicità. Anche la celebre descrizione della Chiesa di Gerusalemme offerta da Luca negli Atti degli Apostoli delinea questa unità fraterna o koinonía connettendola alla frazione del pane, cioè alla celebrazione eucaristica (At 2,42). È una comunione che si compie nella concretezza della storia: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nella comunione fraterna (koinonía), nella frazione del pane e nella preghiera (…) Tutti coloro che erano divenuti credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune” (At 2,42-44).
5. Si rinnega perciò il significato profondo dell’Eucaristia, quando la si celebra senza tener conto delle esigenze della carità e della comunione. Paolo è severo con i Corinzi perché il loro radunarsi insieme “non è più un mangiare la cena del Signore” (1Cor 11,20) a causa delle divisioni, delle ingiustizie, degli egoismi. In tal caso l’Eucaristia non è più agape, cioè espressione e fonte di amore. E chi partecipa indegnamente, senza farla sbocciare in carità fraterna, “mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11,29). “Se la vita cristiana si esprime nell’adempimento del più grande comandamento, e cioè nell’amore di Dio e del prossimo, questo amore trova la sua sorgente proprio nel santissimo sacramento, che comunemente è chiamato: sacramento dell’amore” (Dominicae coenae n. 5). L’Eucaristia ricorda, rende presente e genera questa carità.
Raccogliamo, allora, l’appello del vescovo e martire Ignazio che esortava all’unità i fedeli di Filadelfia in Asia Minore: “Una sola è la carne di nostro Signore Gesù Cristo, uno solo è il calice nell’unità del suo sangue, uno solo l’altare, come uno è il Vescovo” (Ep. ad Philadelphenses 4). E con la liturgia preghiamo Dio Padre: “A noi che ci nutriamo del corpo e del sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito” (Preghiera eucaristica III).
Mercoledì, 15 novembre 2000
"La Parola, l’Eucaristia e i cristiani divisi" (Lettura: Gv 17,20-21)
1. Nel programma di quest’anno giubilare non poteva mancare la dimensione del dialogo ecumenico e di quello interreligioso, come già indicavo nella Tertio millennio adveniente (cfr nn. 53 e 55). La linea trinitaria ed eucaristica che abbiamo sviluppato nelle precedenti catechesi ci conduce ora a sostare su questo versante, prendendo in considerazione innanzitutto il problema della ricomposizione dell’unità tra i cristiani. Lo facciamo alla luce della narrazione evangelica sui discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35), osservando il modo in cui i due discepoli, che si allontanavano dalla comunità, furono spinti a fare il cammino inverso e a ritrovarla.
2. I due discepoli voltavano le spalle al luogo in cui Gesù era stato crocifisso, perché questo evento era per loro una delusione crudele. Per lo stesso fatto, si allontanavano dagli altri discepoli e tornavano, per così dire, all’individualismo. ‘Conversavano di tutto quello che era accaduto’ (Lc 24,14), senza capirne il senso. Non capivano che Gesù era morto ‘per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi’ (Gv 11,52). Vedevano soltanto l’aspetto tremendamente negativo della croce, che rovinava le loro speranze: ‘Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele!’ (Lc 24,21). Gesù risorto si accosta e cammina con loro, ‘ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo’ (Lc 24,16), perché dal punto di vista spirituale, si trovavano nelle tenebre più oscure. Gesù allora s’impegna con ammirevole pazienza a rimetterli nella luce della fede per mezzo di una lunga catechesi biblica: ‘Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui’ (Lc 24,27). Il loro cuore cominciò a ardere (cfr Lc 24,32). Pregarono il loro misterioso compagno di restare con loro. ‘Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista’ (Lc 24, 30-31). Grazie alla spiegazione luminosa delle Scritture, erano passati dalle tenebre dell’incomprensione alla luce della fede ed erano divenuti capaci di riconoscere Cristo risorto ‘nello spezzare il pane’ (Lc 24,35).
L’effetto di questo cambiamento profondo fu un impulso a ripartire senza indugio e a fare ritorno a Gerusalemme per raggiungere ‘gli Undici e gli altri che erano con loro’ (Lc 24,33). Il cammino di fede aveva reso possibile l’unione fraterna.
3. Il nesso tra l’interpretazione della parola di Dio e l’Eucaristia appare anche altrove nel Nuovo Testamento. Giovanni nel suo Vangelo intreccia questa parola all’Eucaristia quando nel discorso di Cafarnao ci presenta Gesù che evoca il dono della manna nel deserto reinterpretandolo in chiave eucaristica (cfr Gv 6,32-58). Nella Chiesa di Gerusalemme, l’assiduità ad ascoltare la didaché, cioè l’insegnamento apostolico basato sulla parola di Dio, precedeva la partecipazione alla ‘frazione del pane’ (At 2,42).
A Troade, quando i cristiani si riunirono attorno a Paolo per ‘spezzare il pane’, Luca riferisce che il raduno cominciò con lunghi discorsi dell’Apostolo (cfr At 20,7), certamente per nutrire la fede, la speranza e la carità. Da tutto questo risulta chiaro che l’unione nella fede è la condizione previa alla partecipazione comune all’Eucaristia.
Con la Liturgia della Parola e l’Eucaristia - come ci ricorda il Concilio Vaticano II citando san Giovanni Crisostomo (In Joh. hom. 46) - ‘i fedeli uniti col Vescovo hanno accesso a Dio Padre per mezzo del Figlio, Verbo incarnato, morto e glorificato, nell’effusione dello Spirito Santo, ed entrano in comunione con la Santissima Trinità, fatti ‘partecipi della natura divina’ (2Pt 1,4). Perciò per mezzo della celebrazione dell’Eucaristia del Signore in queste singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce, e per mezzo della celebrazione si manifesta la loro comunione’ (Unitatis redintegratio, n. 15). Questo legame col mistero dell’unità divina genera, dunque, un vincolo di comunione e di amore tra coloro che sono assisi all’unica mensa della Parola e dell’Eucaristia. L’unica mensa è segno e manifestazione dell'unità. ‘Di conseguenza, la comunione eucaristica è inseparabilmente legata alla piena comunione ecclesiale e alla sua espressione visibile’ (La ricerca dell=unità - Direttorio ecumenico1993, n. 129).
4. In questa luce si comprende come le divisioni dottrinali esistenti tra i discepoli di Cristo raccolti nelle diverse Chiese e Comunità ecclesiali limitino la piena condivisione sacramentale. Il Battesimo è, tuttavia, la radice profonda di un’unità fondamentale che lega i cristiani nonostante le loro divisioni. Se pertanto la partecipazione alla medesima Eucaristia rimane esclusa per i cristiani ancora divisi, è possibile introdurre nella Celebrazione eucaristica, in casi specifici previsti dal Direttorio ecumenico, alcuni segni di partecipazione che esprimono l’unità già esistente e vanno nella direzione della piena comunione delle Chiese attorno alla mensa della Parola e del Corpo e Sangue del Signore. Così, ‘in occasioni eccezionali e per una giusta causa il Vescovo diocesano può permettere che un membro di un’altra Chiesa o Comunità ecclesiale svolga la funzione di lettore durante la Celebrazione eucaristica della Chiesa cattolica’ (n. 133). Similmente ‘ogniqualvolta una necessità lo esiga o una vera utilità spirituale lo consigli e purché sia evitato il pericolo di errore o di indifferentismo’, tra cattolici e cristiani orientali è lecita una certa reciprocità per i sacramenti della penitenza, dell’Eucaristia e dell’unzione degli infermi (cfr nn. 123-131).
5. Tuttavia l’albero dell’unità deve crescere fino alla sua piena espansione, come Cristo ha invocato nella grande preghiera del Cenacolo qui proclamata in apertura (cfr Gv 17,20-26; UR n.22). I limiti nell’intercomunione davanti alla mensa della Parola e dell’Eucaristia devono trasformarsi in un appello alla purificazione, al dialogo, al cammino ecumenico delle Chiese. Sono limiti che ci fanno sentire più fortemente, proprio nella Celebrazione eucaristica, il peso delle nostre lacerazioni e contraddizioni. L’Eucaristia è così una sfida e una provocazione posta nel cuore stesso della Chiesa per ricordarci l’intenso, estremo desiderio di Cristo: ‘Siano una cosa sola’ (Gv 17,11.21).
La Chiesa non dev’essere un corpo di membra divise e doloranti, ma un organismo vivo e forte che avanza sostenuto dal pane divino, come è prefigurato nel cammino di Elia (cfr 1 Re 19,1-8), fino alla vetta dell’incontro definitivo con Dio. Là finalmente si compirà la visione dell’Apocalisse: ‘Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una Sposa adorna per il suo Sposo’ (21,2).